Erba

Erba, fallimento della Mectex. Intervista ad Aurelio Fassi

Caterina Franci 5 Aprile 2019

Economia/Lavoro, Erba

La Mectex

 

ERBA – Sono passati quasi cinque anni da quella sentenza della Corte di Appello di Milano che ha risolto l’omologa del concordato e portato, di conseguenza, al fallimento dell’azienda erbese, Mectex. A marzo 2019 la Corte Suprema di Cassazione ha annullato la sentenza, ma ormai la parola “fine” era già stata scritta su questa storia. Una storia di passione, innovazione, coraggio, sacrificio che ha visto quasi tre generazioni di imprenditori lavorare per rendere la propria manifattura simbolo dell’imprenditoria tessile italiana nel mondo.

La storia dell’azienda

Ma facciamo un passo indietro. Tutto ha inizio sui banchi della scuola Setificio di Como quando due giovani compagni di classe, Carlo Fassi e Irma Pogliani, non solo si innamorano, ma decidono anche di condividere il mestiere, cominciando a lavorare nella piccola tessitura di Abbadia Lariana comprata per hobby dal papà di Irma.

Carlo è anche un valido sciatore, ma potrebbe esserlo ancora di più se solo i vestiti che indossa sulle piste non lo ostacolassero nei movimenti. E così, sfruttando le proprie conoscenze e una buona dose di esperienza, inizia a condurre i primi esperimenti che lo porteranno nel 1956 a mettere a punto una serie di lavorazioni di torcitura e termofissazioni in grado di rendere elastiche fibre rigide come il nylon. Nascono i primi tessuti elastici.

Inizialmente usati per realizzare i guanti da donna in raso di acetato, i filati elasticizzati di Carlo arrivano a Milano da un grande sarto che realizza pantaloni da sci: “Ma lü l’è mat” (“Ma lei è matto”, ndr), si sente rispondere Carlo alla proposta di usare i suoi tessuti per l’abbigliamento sportivo. “E così il ‘matto’ è tornato a Mandello – racconta Aurelio Fassi, uno dei figli di Carlo – E con 12.800 lire in tasca il 18 febbraio 1960 fonda a Olate, sotto il castello di Don Rodrigo, la Mectex. Tre figli all’attivo e io che stavo arrivando”.

Dopo le prime macchine per il controllo qualità, “pallino” di Carlo, come ricorda il figlio, la Mectex inizia la sua rapida ascesa che la porterà nel giro di pochi anni ad affermarsi come una delle più innovative industrie del settore tessile, non solo italiano, ma anche europeo e mondiale: “Liquidato nel 1962 il Guantificio Bonfanti di Inverigo, i miei genitori hanno avviato in autonomia un’attività in via Prealpi a Erba, dove si erano trasferiti, e grazie agli avveduti consigli del dottor Moia, capoufficio fidi della Banca Popolare di Lecco, hanno iniziato a compiere i primi investimenti – prosegue Aurelio Fassi – Al termine degli studi, anche i miei fratelli Gabriele, del 1947 diplomato al Setificio, e Valeria, del 1948 diplomata in lingue estere, sono entrati in azienda e hanno iniziato a sviluppare rapporti commerciali con l’estero, tra cui la Germania e il Giappone. Successivamente siamo poi entrati io e mio cognato, marito di Valeria”.

La scommessa di Carlo sull’abbigliamento tecnico da sci era, a questo punto, vinta: grandi marche del mondo dell’abbigliamento da sci, come Colmar, Samas, Tecnica, iniziano a investire sui prodotti Mectex (Tecnica produrrà con i tessuti Mectex i primi Moon Boot). Il nylon ad alta tenacità, il forte nylon, il Mecpor (impermeabile e traspirante) e la sua evoluzione, il SuperMecpor, si affermano quindi come tessuti di avanguardia che ben si sposano con le necessità degli sportivi anche più esigenti come Toeni, Gros, De Chiesa, Radici. Tramite Colmar e Samas, la “Valanga Azzurra” era vestita da Mectex e, questo successo, continuò fino a Tomba.

La sfida non era però conclusa: “Ci siamo resi conto che avevamo bisogno di allargarci a prodotti che non fossero solo invernali in modo che le macchine potessero lavorare su tutti i dodici mesi. Così abbiamo iniziato a lavorare con Lacoste, per l’abbigliamento da tennis in cotone elasticizzato, e poi con Tamigi, Best Company, Gavinelli, Fila, Manifattura Gagliardi Oleggio e, tanti altri, per i costumi da bagno da spiaggia, mentre con Diana e Arena per i costumi tecnici. È stato un successo: nessuno aveva i nostri prodotti e i nostri disegni”, continua Aurelio.

Il vero trionfo aziendale arriva a metà degli anni ’80 quando il mondo della moda intuisce che utilizzando il tessuto elasticizzato può creare abiti che si adattino a tutti i corpi: “È stata l’apoteosi: nel 2000 abbiamo raggiunto un fatturato di 24 milioni, suddiviso 50%-50% tra Italia e estero. Producevamo per Armani, Dolce&Gabbana, Tod’s e tante altre delle più grandi firme italiane ma esportavamo e molto, fornendo i migliori nomi della Germania, Francia, Austria, Inghilterra, USA e Giappone; per questo abbiamo ricevuto anche riconoscimenti dalla Camera di Commercio di Como per la crescita delle nostre esportazioni”.

 

Il crollo finanziario e la vicenda giudiziaria

La battuta di arresto arriva però nei primi anni 2000 quando sul mercato italiano fanno il proprio ingresso i prodotti importati dalla Cina: “Nel giro di 5 anni siamo passati da un fatturato di 24 milioni a 9 milioni nel 2005. La drastica riduzione delle vendite ci ha quindi spinto a cercare nuovi mercati in cui tecnologia e alta qualità fossero ancora necessari”, racconta Aurelio. Mectex si lancia quindi nella produzione dei tessuti per il vestiario tecnico da lavoro iniziando a creare per aziende del settore petrolifero, dell’alta visibilità e dei materiali ignifughi e per quello sportivo della Formula 1 e del nuoto (Speedo vestirà i nuotatori vincitori delle Olimpiadi 2008 con un particolare materiale a marchio Mectex). “Tra il 2005 e il 2008 abbiamo immesso in azienda 4 milioni di euro dando fondo ai risparmi di 50 anni di lavoro e mettendo come garanzia le nostre abitazioni – continua Aurelio – Le banche ci incoraggiavano: ‘Voi fate la vostra parte che noi faremo la nostra’, ci dicevano. Però stranamente ogni volta che investivamo nuovo denaro si riducevano gli affidamenti a breve termine: tante banche spostavano i finanziamenti dal breve al medio termine garantito”.

Data la situazione, nel 2008 la famiglia Fassi decide di partecipare a gare di appalto indette dal Governo italiano per le forniture militari: “Nel giro di 2 anni siamo riusciti a posizionarci bene e nel 2010 abbiamo vinto tre gare per un importo di circa 3 milioni di euro. Pensavamo di avere una possibilità, ma lo Stato, come oggi è ben noto a tutti, non riusciva a pagare e, le banche non finanziavano l’azienda per i crediti verso lo Stato; forse non li ritenevano esigibili”. È stato l’inizio della fine: “Nel 2010 la crisi di liquidità è diventata davvero pesante – prosegue Aurelio – e un bancario ci ha suggerito di ricorrere all’articolo 67 della legge fallimentare attraverso il quale avremmo potuto cercare un accordo con le banche ‘congelando’ il debito pregresso, immettendo nuova finanza per proseguire la produzione in serenità finanziaria e, ovviamente, attuando un piano di rientro dilazionato sul debito precedente”.

E così, agli inizi di settembre 2010, l’avvocato del ceto bancario ci scrisse che il nostro piano industriale era approvato da 3 banche e di conseguenza con una promessa di erogazione di 2.400.000 euro di nuova finanza. Il piano prevedeva di restituire l’intero debito pregresso, maggiorato di interessi in 5 o 8 anni. La famiglia Fassi incontra le banche a dicembre 2010 per definire gli ultimi dettagli avendo comunemente concordato e fissato la data dell’atto notarile fra Natale e capodanno. “Era tutto pronto: le banche Intesa, Valtellinese e Cassa di Credito di Alzate ci avrebbero finanziato”. Ma il giorno della “rifinizione” del contratto la sorpresa: “Una per volta, le tre banche si sono tirate indietro riducendo drasticamente le somme che avevano originariamente preventivato per noi. Il progetto ‘Articolo 67’ è così fallito”.

A gennaio 2010 l’azienda aveva affidamenti per circa 10 milioni; a dicembre 2010, per meno di 2. Nel 2011, il crollo: l’azienda non era più in grado di rispettare puntualmente i pagamenti; ciò nonostante la fiducia dei fornitori è stata la più ampia. L’unica alternativa possibile era una domanda di concordato. Inizia così il “calvario” giudiziario della Mectex: “A seguito di una pesantissimo intervento di Equitalia, nel novembre 2011 siamo costretti a depositare la domanda di concordato in continuità, come consentito dalle recenti leggi in materia. Il Tribunale di Como boccia la nostra richiesta perché priva di garanzie e, per diverse interpretazioni giudicata , non sussistente degli estremi per I’ammissione laal procedura di concordato preventivo – spiega Aurelio Fassi – Dopo diversi tentativi di truffa a nostro svantaggio da parte di alcuni professionisti, all’inizio del 2012 presentiamo una seconda domanda di concordato allegando una offerta concreta ed immediata di una azienda del settore. Il Tribunale ammetta alla procedura di concordato e nomina il Commissario. Nei mesi seguenti, l’attività aziendale viene puntualmente comunicata al Commissario ed i numeri parlano chiaramente di una gestione attiva e in utile. Gli incontri fra il Commissario ed i rappresentanti dell’acquirente generano degli attriti più di carattere personale che sostanziale. Ne consegue che il Commissario deposita istanza di revoca del concordato e, il Tribunale revoca.

Nel frattempo si è concretizzato un nuovo interesse all’acquisto dell’azienda. Per cui a luglio depositiamo una 3° domanda di concordato. Il Tribunale di Como non la ammette ritenendo la documentazione allegata non sufficientemente aggiornata e fissa l’udienza prefallimentare a settembre”.

A settembre 2012 Mectex presenta dunque una quarta domanda di concordato supportata da atto notarile di affitto e successivo acquisto di ramo d’azienda sottoscritto con la OR.A. srl e con garanzia fideiussoria della capogruppo Adler S.p.A. L’istanza non viene ammessa. Così, a gennaio 2013 viene presentata la quinta  domanda di concordato che viene ammessa con la nomina di un nuovo commissario. Alla votazione la maggioranza numerica e sostanziale dei creditori ha votato a favore e il Tribunale di Como ha omologato il concordato liquidatorio. Potevamo procedere”.

La vicenda sembrava dunque prossima a concludersi quando Inps, Equitalia e precedente professionista nel frattempo revocato, presentano un ricorso alla Corte di Appello di Milano: “Tra le motivazioni addotte c’era l’impossibilità di falcidiare l’Iva, in quanto imposta europea e non nazionale non sottoposta alle leggi di ogni singolo paese membro. Tuttavia, la legge sull’Iva intracomunitaria prevede lo stralcio dell’imposta in casi come il nostro” unitamente al fatto che il nuovo professionista asseveratore non poteva svolgere quella funzione essendo incidentalmente parente di un dipendente Mectex. La Corte di Appello accoglie però i ricorsi e risolve il concordato: “L’istanza di fallimento rimasta ferma per 3 anni è quindi tornata a galla e, non essendoci più possibilità a nuove istanze di concordato, il 03 giugno 2016, è stato dichiarato il fallimento di Mectex. Fallimento che, come risulta dalla sentenza, origina dalla risoluzione del concordato pronunciata dalla Corte di Appello ancorchè precedentemente ammesso ed omologato dalla collegiale del medesimo Tribunale di Como”.

 

La sentenza della Cassazione

Lo scorso 11 marzo, la Corte di Cassazione cassa la sentenza della Corte di Appello di Milano, ma ormai è troppo tardi perché la famiglia Fassi possa recuperare la propria amata Mectex: “L’azienda della mia famiglia non sarebbe dovuta fallire. Abbiamo fatto degli errori, ma non abbiamo mai sottratto un centesimo; abbiamo sempre pagato e puntualmente gli stipendi anche a costo di ipotecare i beni personali in favore dell’azienda. Con le banche, siamo sempre stati sinceri ottenendo come effetto, non il giusto aiuto ma venendo massacrati con tassi e condizioni anomali. A riprova di questo, abbiamo depositato una querela per usura bancaria; la Guardia di Finanza, incaricata allo scopo dal PM, ne ha accertato l’esistenza e, ciò nonostante, la pratica è stata archiviata”.

“La nostra azienda, la nostra passione, i nostri sacrifici, la nostra vita, non ci verranno mai più restituiti. Nonostante questo e quanto accaduto, crediamo fermamente nella Giustizia e desideriamo che la verità trionfi.Noi abbiamo già pagato un prezzo molto alto, forse troppo alto, rispetto agli errori commessi comunque in buona fede. Immaginiamo sarebbe giusto che anche chi ha ingiustamente lucrato, portandoci al largo nel mare, per poi forare il “salvagente”, pagasse ora per i suoi errori commessi non in buona fede ma in esecuzione di un interesse illegittimo. Questa è la mia speranza”, conclude Aurelio.