Ponte Lambro

Alberto Bosis: un nuovo romanzo ambientato a Ponte Lambro

Admin Altreforme 24 Febbraio 2014

Cultura, Ponte Lambro

Tag: , , , ,

Alberto BosisPONTE LAMBRO – Un pontelambrese alle prese con un nuovo libro e Ponte Lambro è stata scelta ancora una volta come ambientazione.

Alberto Bosis ha annunciato su Facebook l’inizio di un nuovo romanzo. “Anche questo è un omaggio a Ponte Lambro, come il precedente. L’ambientazione però spazierà anche oltre, fino a Como – anticipa l’autore – Ponte Lambro viene descritta in modo decadente. Scrivo di aree dismesse che per chi guarda da fuori sono solo qualcosa di brutto ma per altri possono suscitare affetto e ricordi. Parlo in prima persona ma il protagonista non sono io e tutto muove attorno a una grande fonte di ispirazione: una canzone di Bruce Springsteen“.

Bosis ammette di non sapere quando terminerà il suo libro, visto che scrive solo alla sera tardi di tanto in tanto e in qualche pausa pranzo domenicale. “Magari nemmeno lo finirò, oppure, in corso d’opera, cambierà tutto. Continuo comunque a scrivere per piacere, per ricaricarmi – ammette l’architetto pontelambrese già autore di “Il museo del lago” (2007) e “Lo sconosciuto” (2013) della Marna – Non so a chi destinerò il ricavato in questo caso dopo aver scelto per due volte il Noivoiloro. Al momento spero solo che questo inizio piaccia a chi avrà tempo e voglia di leggerlo. C’è qualche “licenza” letteraria, ma storie e luoghi sono reali”.

Ci sarà il mondo della scuola, soprattutto, nel nuovo romanzo di Bosis. “Ho molti contatti con questo ambiente. Sarà un lavoro più profondo dei precedenti probabilmente, ma sempre senza messaggi particolari e immancabile sarà qualche storia che da sul fantastico”.

 

E per chi ha voglia di leggere, ecco la prima pagina del nuovo libro di Alberto Bosis.

“Sono cresciuto in una periferia dove pronunciare termini quali “verde”, “parco”, “area attrezzata” e simili poteva diventare un pericoloso insulto. Una periferia nella quale il senso della vita e quello della morte si confondevano con indifferenza.

L’edificio nel quale ho vissuto la mia infanzia e la mia adolescenza faceva parte di un quartiere con una strana combinazione urbana. Dalla mia camera, appena mi svegliavo al mattino, aprivo la finestra e vedevo la strada provinciale con subito dietro la ferrovia e, oltre questa, la grande fabbrica, il Cotonificio, la fabbrica dove mio padre e tutti i padri dei miei amici lavoravano.

In alcuni giorni il vento soffiava verso casa, facendo diventare il fumo della ciminiera un nemico che portava l’odore acre fin dentro il locale.

Mio padre era già al lavoro quando facevo colazione, prima di andare a scuola. Erano anni nei quali un lavoro era per tutta la vita e solo da poco comprendo quanto quella mia velata, inquieta, accusa di ordinarietà verso di lui, mi appaia oggi, soprattutto oggi, trasformata in un traguardo inarrivabile.

Appena uscito da casa incontravo subito gli altri elementi di quella “strana combinazione urbana”.

Fuori dal condominio, sul fronte opposto alla mia camera, c’era un deposito di carbone gestito da un anziano signore. Aveva assieme a lui un cane e non comprendevo se il colore nero del cane fosse dovuto alla polvere oppure al suo mantello naturale. Dovevo prestare attenzione passando perché quando l’uomo muoveva il carbone con una pala, la polvere mi sporcava il grembiule e la maestra, pur conoscendo benissimo il motivo, mi riprendeva sistematicamente.

Superato il deposito di carbone passavo vicino al cimitero. Ricordo donne anziane, piegate dall’età. Di tanto in tanto qualcuna mi sorrideva, ma la maggior parte di loro mi appariva triste e ostile. Ancora poche centinaia di metri e giungevo a scuola, solo dopo aver però superato un canale artificiale con sopra un piccolo ponticello di cemento. Non ricordo se mi dava più fastidio l’odore dei fiori marciti al cimitero o quello del canale, nel quale le fabbriche scaricavano i rifiuti.

Eppure era tutto normale. Mi dava fastidio tutto, ma tutto mi appariva in fondo normale. Era così e basta.

Se le fabbriche scaricavano, era per dare lavoro. Se i fiori marcivano, era perché qualcuno non aveva avuto tempo per cambiarli. La ferrovia doveva esserci, altrimenti come potevano muoversi le persone che lavoravano a Milano? E la fabbrica vicinissima a casa, con il fumo della ciminiera? Se non ci fosse stata, mio padre come avrebbe potuto mantenerci? Già, tutto normale.

Mio padre morì quando avevo dieci anni.

Dopo la sua morte tutte le cose che mi davano fastidio erano diventate sciocchezze, in confronto al resto. Le difficoltà erano diventate altre. Erano quelle di mia madre che doveva mantenere e far crescere me e mia sorella. Al mattino aprivo al finestra, guardavo la grande fabbrica, e spesso piangevo in silenzio. Poi mi asciugavo le lacrime e andavo in cucina, con un sorriso. Non volevo che mia madre mi vedesse triste, non volevo aggiungere problemi ai problemi.

C’era una cosa che mi mancava tantissimo, però. Quando mio padre aveva potuto cambiare la sua auto, una vecchia Seicento, per acquistarne una nuova, finito il turno di lavoro a volte mi portava a fare un giro per la città e mentre guidava mi metteva sempre la mano tra i capelli dicendomi: “Bella o brutta che sia, questa è la nostra città!”.

Moltissimi anni sono passati da allora, anni difficili. Molte cose sono cambiate. La fabbrica, il deposito di carbone, la scuola, non esistono più. E neppure alcuni miei amici, uccisi giovanissimi dall’eroina.

Dal giorno del funerale di mio padre non ho più pianto, se non quando aprivo la finestra. Non volevo più piangere.

Ora anch’io ho un figlio. Vivo con lui e mia moglie sempre nella stessa città, ma in una zona distante, una zona residenziale con parco, una biblioteca e campi da tennis. Ma oltre alle fabbriche, anche i negozi chiudono. Forse avrei motivi per piangere, pur non facendolo mai.

Però un giorno l’ho fatto e quel giorno ho pianto tutte le lacrime trattenute per anni. L’ho fatto in un’occasione banale, ascoltando per caso una canzone, un brano di un cantautore americano. Ero in autostrada, stavo rientrando a casa ed ero solo in auto. Era buio e la pioggia era molto intensa, tanto da farmi andare molto lentamente, ma con la radio accesa. Ad un certo momento hanno trasmesso quel pezzo, che non sentivo da anni. L’ultima volta che l’avevo ascoltato, quasi vent’anni prima, non comprendevo ancora l’inglese e non ne comprendevo il testo. Conoscevo solo il titolo in italiano, La mia città.

Ho compreso solo in quel momento come quella canzone parlasse del rapporto di un padre con un figlio, del figlio diventato padre, di una città degradata, di ricordi, di tensioni sociali. Ho avuto una sensazione strana… E’ stato come se… Come se l’avesse scritta mio padre per me.

Quando sono rientrato a casa, tardissimo, dormivano tutti.

Il giorno dopo, rientrato dal lavoro alla sera, ho fatto un giro nella mia città, in auto, con il mio bimbo.

Io piangevo e lui non capiva. Poi abbiamo riso.

Forse quel giorno sono diventato davvero un padre ed è stato come se qualcuno avesse posato, mentre guidavo, la sua mano sulla mia testa”.