Canzo

La tragica fine di Moreno Locatelli in un film di Bocchi

Lorenzo Colombo 30 Settembre 2015

Attualità, Canzo

MIR SADA - 1993CANZO – L’assassinio di Moreno “Gabriele” Locatelli nel libro e nel film Il ponte di Sarajevo.

Proprio il prossimo 3 ottobre ricorrerà il ventiduesimo anniversario della scomparsa di Moreno “Gabriele” Locatelli, il pacifista italiano che fu colpito a morte sul ponte Vrbanja a Sarajevo da una raffica di mitragliatrice durante una marcia dei “Beati i costruttori di pace”.

Anche se alla memoria del giovane italiano morto per la pace sono stati dedicate piazze e parchi in Italia e una strada centrale della capitale bosniaca – quest’ultima intitolata dopo una petizione popolare dei cittadini di Sarajevo -, non c’è ancora neppure l’ombra di una verità giudiziaria sulla sua morte, né in Italia né tantomeno in Bosnia.

Il regista Giancarlo Bocchi, partendo dall’inchiesta documentaristica del 1998 per Morte di un pacifista, film che ha ricevuto nel 1996 il “Premio Trieste per il nuovo cinema europeo”, dopo vent’ anni di ricerche e indagini personali ha dimostrato, con testimonianze e documenti, pubblicati nel libro e nel film Il ponte di Sarajevo, usciti qualche mese fa, che Locatelli non fu colpito a morte, secondo la tesi ufficiale, da un ignoto “cecchino”, ma cadde invece in un vero e proprio agguato premeditato nel quale erano coinvolti diversi appartenenti al clan dell’allora presidente Alija Izetbegovic: il capo delle guardie del corpo presidenziali, Haris Lukovac, e il criminale di guerra e comandante della X Brigata di montagna, Musan Topalovic detto “Caco”, che aveva come riferimento politico Bakir Izetbegovic, figlio di Alija, uno dei tre attuali presidenti della Bosnia. Malgrado quanto è stato scoperto nel corso degli anni, si può dire che “Il caso Locatelli” sia entrato a far parte di quella serie molto lunga di inchieste scomode, dimenticate o irrisolte dalla magistratura italiana.

L’iniziale inchiesta del 1993 della Procura di Como venne avocata con inusitata tempestività dalla Procura generale di Brescia, ma sul corpo del giovane italiano non si effettuò alcuna autopsia (come era accaduto anche nel caso di Ilaria Alpi) e l’indagine rimase “in letargo” fino al 1998. In quell’anno il procuratore di Brescia Giancarlo Tarquini riaprì l’inchiesta sulla base delle risultanze del film Morte di un pacifista, ma non si fece alcuna perizia balistica sui vestiti che indossava Locatelli al momento della morte (che erano stati recuperati grazie alle indicazioni del regista Bocchi) e una testimone dei fatti, Silvia Nelvina, a proposito dell’interrogatorio davanti ai carabinieri di Roma su delega dei giudici bresciani, dichiarò al quotidiano “Il Giorno”: “Ho espresso le mie perplessità sul fatto che l’interrogatorio fosse così circoscritto. Per capire come sono andare le cose e le responsabilità bisognerebbe spiegare il contesto, i giorni precedenti e quelli successivi…”.

Il caso era senz’altro delicato. Due dei partecipanti alla marcia, Luigi Ceccato e Luca Berti, erano entrati a Sarajevo con un salvacondotto rilasciato dal Vaticano. La vicenda coinvolgeva anche due sacerdoti cattolici, don Albino Bizzotto e padre Angelo Cavagna, ispiratori e organizzatori della marcia sul ponte Vrbanja, prima linea contesa da quattro diverse fazioni in guerra, luogo dove erano stati uccisi diversi cittadini di Sarajevo, già famoso in tutto il mondo per la tragica vicenda di Bosko e Admira “I Giulietta e Romeo di Sarajevo”.

Il capo dell’organizzazione “Beati i costruttori di pace”, fin dalla sera del 3 ottobre 1993, sapeva che la morte di Locatelli non era dovuta a un cecchino serbo ma, come confessò al giornalista reporter di guerra Claudio Olivato, che “erano stati i musulmani a sparare”. Don Bizzotto, che i servizi segreti musulmani chiamavano “don serbo”, non informò la magistratura di quello che sapeva o sospettava e continuò a svolgere le attività della sua organizzazione a Sarajevo come se nulla fosse. Nel 1994 i “Beati” subirono un altro attentato. Fu proprio Harris Lukovac a vantarsi di aver incendiato gli uffici a Sarajevo dell’associazione cattolica invisa al clan Izetgebovic.

Dopo le indagini iniziali del 1998 la Procura di Brescia dichiarava di non poter proseguire l’inchiesta all’estero perché mancava l’autorizzazione del ministero di Grazia e Giustizia, che  il ministro Oliviero Diliberto avrebbe concesso dopo qualche mese sulla base dell’art. 8 c.p. “Delitto politico contro un italiano all’estero”.

Sebbene la Repubblica italiana avesse nel frattempo inviato in Bosnia migliaia di soldati e centinaia di poliziotti e carabinieri, nessuno si occupò di far luce sul caso Locatelli.

“L’Onu, spintasi al punto di falsificare i fatti per nascondere la propria responsabilità di non avere impedito l’azione dei pacifisti sul ponte Vrbanja, rifiutò di fornire i documenti in suo possesso sul caso Locatelli. Un funzionario della stessa organizzazione, l’italiano Andrea Angeli, addirittura scrisse di aver messo da parte il relativo dossier e di averlo poi smarrito”. In tutti questi anni il regista Giancarlo Bocchi non si è arreso di fronte all’omertà, alla ragion di Stato, ai depistaggi, alle pesanti minacce ricevute, rivelando, infine, che dietro la morte di Moreno “Gabriele” Locatelli si nasconde un intrico di interessi delittuosi e di responsabilità e che il delitto del giovane italiano è rimasto impunito e occultato da una cortina internazionale di ipocrisia e menzogne.