
ERBA – “Tutti parlano del calicione, ma in pochi si ricordano del calice”. Inizia così il racconto di chi, Angelo Miotto, avendo realizzato l’opera, oggi è felice da un lato del suo peregrinare, ma dall’altro vorrebbe rivederlo sulla piazza Prepositurale di Erba.
La “battaglia” per riportare a Erba il calicione dura ormai da anni e nelle scorse settimane è stata anche oggetto di una petizione presentata in Comune da Filippo Pozzoli (vedi articolo).
Chi meglio del maestro che lo ha realizzato, quindi, può parlare della sua opera? Angelo Miotto, gran lavoratore ma schivo di carattere, alla veneranda età di 90 anni, ci ha accolti volentieri per svelare, una volta per tutte, tutta la verità che sta dietro al “Sacro calice”.
“Prima di parlare del calicione, dobbiamo ricordare che negli anni ’60 ho realizzato un altro calice – spiega Miotto – A quei tempi avevamo a Erba un coadiutore, Don Carlo Caletti, che aveva problemi di salute. Pensai quindi di realizzare un calice in ferro che potesse ricordarlo, ma quando morì, nel ’64, non era ancora pronto. Decisi di proseguire comunque nel lavoro e, in occasione di un congresso eucaristico che avrebbe radunato tutti i confratelli dell’erbese, il calice fu collocato sul sagrato della prepositura. Nel pomeriggio di quello stesso giorno arrivò a Erba il cardinale Giovanni Colombo che vide il calice e mi fece chiamare”.

Il cardinale fece delle raccomandazioni al maestro Miotto affinchè il calice fosse lasciato lì, sul sagrato. Ma poi qualcosa cambiò. Dal Pime vennero a Erba alcuni padri che chiesero a Miotto di poter utilizzare il calice per un congresso eucaristico in Brasile.
“Fui tremendamente combattuto – ricorda Miotto – Il cardinale Colombo mi raccomandò di lasciarlo lì, però, alla fine, mi lasciai convincere”.
E così il calice erbese partì per il Brasile, dove è tuttora conservato all’interno della facciata di una chiesa (vedi foto sotto).

“Il cardinale Colombo, però, mi disse che se fosse tornato a Erba avrebbe voluto vedere il calicione ancora sul sagrato, perciò pensai di realizzarne un altro“.
Ed è così che nasce quello che oggi chiamiamo “calicione”. Ha richiesto un lavoro di circa 20 anni e, nel 1991, è stato utilizzato per la prima volta in occasione del 50° di messa di Padre Aristide Pirovano. Il secondo calice di Miotto era dello stesso materiale (ferro), ma aveva dimensioni molto più imponenti: dai 3 metri del primo si è arrivati a 10 metri di altezza del secondo, divisibile in 4 parti. Una vera e propria opera d’arte, così come lo sono anche le altre creazioni dell’erbese: la riproduzione di Sant’Eufemia (un lavoro di 4 anni) e la riproduzione di Sant’Abbondio (un lavoro di 7 anni). “Sono un uomo di poca cultura, ma che ha sempre prodotto tanto manualmente – ammette Miotto, che ha sempre fatto tutto ciò per passione e mai per lavoro essendo impiegato nel tessile – Ora ho 90 anni e non posso più lavorare in mezzo alla polvere. Mi manca tanto questa possibilità. Ho in testa tante idee, come per esempio la Basilica di Sant’Antonio di Padova, ma non so come poterle concretizzare”.
Una sofferenza compensata, però, dal bene che con le sue opere è riuscito a fare. “Sono molto affezionato al calicione. A mio avviso, anche se muto, è capace di fare una catechesi. Mi hanno raccontato che ci sono persone che si sono convertite davanti al calicione e per me questo è significativo”.
Il successo del “calicione” ha portato tante parrocchie a chiedere di poterlo avere e così è iniziato il suo peregrinare. “E’ stato a Genova, a Tortona e a Caravaggio e poi è tornato a Erba in occasione della prima messa di don Paolo Baruffini – ricorda Miotto – Poi è andato ad Assisi, a Bolsena e infine a Orvieto, dove si trova tuttora”.
Cosa ha provato il suo costruttore nel veder partire il calicione da Erba? “Sono sempre stato contento che il calicione viaggiasse – ammette Miotto – Sono arrivato anche a pregare la Madonna affinchè potesse arrivare a Orvieto, dove l’avevano chiesto. Ma mi farebbe piacere anche vederlo tornare qui, magari splendente come un tempo, ma sono contrario a una sua eventuale collocazione al cimitero: preferirei tornasse sulla piazza Prepositurale come in origine“.